Introduzione alla lettura del Seminario XVII, Il rovescio della Psicoanalisi - dott. G. Romagnuolo
La tragedia di Edipo
Celebre nel mondo come interprete infallibile del Dio Apollo, l’indovino Tiresia, appena arrivato al cospetto di Edipo, il re di Tebe che ha risolto gli enigmi della Sfinge, si lascia andare a un’esclamazione sorprendente: “ Ah, come è tremendo sapere!”. Gli farà eco, alla fine della tragedia, Giocasta, moglie e madre di Edipo: “sventurato, che tu possa non sapere mai chi sei”.
Il tema della conoscenza è luogo comune della tragedia classica quant’altri mai: ma nell’Edipo re questo tema diventa l’architrave del dramma. Di tutto il mito di Edipo, L’edipo re riporta soltanto la conclusione: la scoperta della verità, il suicidio di Giocasta e l’accecamento di Edipo.
Di tutta la tragedia Sofocle sceglie di mettere in scena solo un aspetto: l’angosciante percorso di accertamento della verità fattuale, che conduce il protagonista Edipo a prendere progressivamente coscienza della sua effettiva verità di uomo.
La conoscenza, dunque non è solo posta a tema, ma è essa stessa il dramma: l’Edipo re è il dramma di sapere la verità. In esso l’accesso alla verità è tutt’altro che liberatorio o armonizzante, ma è invece rappresentato come una feroce impotenza. Si tratta in questa tragedia di tradurre e trasmettere nell’esperienza teatrale la desolante debolezza dell’uomo, la sua miseria.
L’Edipo re è per questo un paradigma della condizione umana.
Egli crede di essere il soggetto di un’autorità ma è in verità l’oggetto di questa autorità scritta che è la legge divina, che fa del suo destino qualcosa di già segnato. Il suo potere fatto discendere direttamente dalla sua conoscenza, dalla sua superiorità intellettuale che gli fu concesso per sconfiggere la Sfinge e gli ha aperto le porte del trono tebano, è vano.
La castrazione di Edipo
In Edipo la verità è di fatto la sua castrazione, essa lo è in quanto il sapere è messo in rapporto con il godimento. Il sapere è il godimento ed è questo che è alla base dell’effetto tragico della rivelazione. Se Edipo non pensasse di detenere il sapere non sarebbe sorpreso di subirne l’inconsistenza scoprendo la verità dei suoi atti.
Freud legge il mito di Edipo intendendo il rapporto al godimento come essenzialmente regolato dall’assassinio del padre. Dall’assassinio e non dalla morte.
Da questo atto si istituirebbe la proibizione del godimento, proibizione dovuta alla colpa. Sarebbe proprio questo sentimento provato dall’orda assassina, che istituirebbe una fratellanza dei figli sotto il nome del padre. Ci sarebbe quindi la colpa alla base dell’istituzione della legge in nome del padre. Anche nella tragedia di Sofocle sembrerebbe che le cose stiano in questo modo: se Edipo non avesse ucciso il padre Laio, non avrebbe potuto godere di Giocasta, sua madre.
Ma il godimento, Edipo è al prezzo di questo assassinio che lo ottiene?
In realtà sembrerebbe di no. Il godimento, come si vede bene nella tragedia, Edipo lo ottiene a partire dal suo sapere. Egli lo ottiene essenzialmente per essere riuscito a liberare il popolo di Tebe dalla carestia, avendo risolto l’enigma della Sfinge con il suo sapere. E’ sopprimendo l’attesa ansiosa del popolo, che la verità introduce, che diviene il re, l’άρίστος, il migliore.
La questione con la verità sembrerebbe dunque regolata in questo modo.
Ma come si sa, ciò sarà proprio all’origine del suo dramma, anticipa infatti a sua insaputa la sua fine, ne è l’inizio.
La questione di sapere in rapporto alla verità, lo pone al centro dell’interrogazione che lo porterà a conoscere la verità che lo condurrà alla sua fine.
Essere il campione della verità lo farà impegnare in prima persona nel disvelamento di quella verità che lo rivela colpevole dei suoi atti. Quindi la questione della verità, a partire dal suo amore per essa, gli si ripropone nella forma più tragica, interrogandolo a sua insaputa proprio sui suoi atti. Edipo per uscire dalla maledizione che ha colpito la sua città, deve sapere chi ha assassinato suo padre. La sua posizione rispetto alla verità, come colui che sa risolverla, lo metterà più di tutti in rapporto ad essa. Egli dovrà svelare l’autore dell’assassinio di suo padre, che lui stesso ha commesso e di cui non ha contezza.
Dunque la questione edipica appare articolarsi nella tragedia su due assi: il godimento legato al sapere (e la castrazione conseguente) e la verità che è sostanzialmente verità dell’atto e quindi inconscia. In questo punto si colloca una distanza dalla lettura freudiana del complesso di edipo, inteso, come detto, sostanzialmente come disposizione del godimento.
Il punto centrale presente nella tragedia ci indica che per Edipo la questione della verità si rinnova e che giunge in ciò che possiamo identificare con qualcosa che ha perlomeno rapporto col prezzo pagato per una castrazione. Il rapporto alla verità che si rinnova per Edipo, lo porta a dover constatare alla fine del giro, la sua castrazione. È questo il punto chiave della tragedia di Sofocle: che la hyubris che scaturisce dall’illusione di detenere la verità è la causa della cecità dell’uomo che gli impedisce di rilevarla veramente.
Ma come sappiamo, Edipo non subisce solo la castrazione, egli in quanto mito è la castrazione stessa.
Egli è ciò che resta quando da lui sparisce sotto forma dei suoi occhi, uno dei supporti privilegiati dell’oggetto a; egli è un misero resto senza l’illusione di poter pervenire a un qualsiasi sapere che non sia falsato da ciò che si vuole vedere.
Egli paga il prezzo della sua tracotanza, che lo ha fatto salire al trono per il fatto che risolvendo l’enigma della Sfinge, gli ha fatto credere di poter cancellare la questione della verità.
Verità che nel mito si rivela non solo nella forma dei terribili avvenimenti di cui il protagonista si è fatto autore, ma soprattutto per la ragione di essersene fatto autore a sua insaputa.
La sua castrazione consisterà nella sua atroce rivelazione, per cui a simbolizzare la posizione di partenza, diverrà cieco cavandosi gli occhi. Diverrà cieco per poter finalmente vedere ciò che a causa del suo accecamento narcisistico non ha potuto vedere pur disponendo dei suoi occhi. La sua castrazione è velata dalla sua vista cieca, dal suo vedere ciò che solo ha voluto vedere.
Da una castrazione immaginaria a una castrazione simbolica
Partendo dalla lettura dell’Edipo re, Lacan ricentra la questione della castrazione sul sapere e la verità, assegnandola così non a un effetto immaginario ma simbolico. Lacan infatti non si limita a considerare la castrazione come un’impossibilità di rivelare una verità fattuale, ma come qualcosa che strutturalmente è in rapporto a un impossibile.
Se la verità è qualcosa di impossibile da rivelare e lo è a partire dal fatto che il suo ostacolo è il linguaggio, allora il godimento stesso, che si pone come sua realizzazione lo sarà altrettanto. Se intendiamo come impossibile la rivelazione ultima di una verità attraverso la parola, dobbiamo anche presumere che vi possiamo accedere solo superando la condizione stessa della parola. Il godimento è precisamente questo superamento, superamento che dà accesso al sapere. Si tratta in questo del sogno del nevrotico, ossia si tratta di quell’accesso a un Sapere Tutto e senza ostacoli. Questo sogno come è facile presupporre, può concretizzarsi in una sola e unica condizione: essere morti.
Ma la morte è primariamente qualcosa che non si può sapere.
Se la morte è inconoscibile, lo è però solo per il fatto di essere vivi. Non sapere di essere morto (che è il nucleo logico del sogno “non sapeva di essere morto”, che Freud produce alla morte del padre) è il sogno che mette al centro questa questione per Freud.
Il mito freudiano, come si enuncia a livello di Totem e Tabù e non più a livello del tragico, è l’equivalenza tra il padre morto e il godimento. È nel reale della sua morte che il padre ha la custodia del godimento. Da qui deriva effettivamente la proibizione del godimento, ossia che non lo si può ottenere se non alla condizione di essere morti.
“il reale è l’impossibile. Non come un semplice ostacolo contro cui andiamo a sbattere, ma come un ostacolo logico a quel che del simbolico si enuncia come impossibile. È da qui che sorge il reale”.
L’eccezione alla castrazione è ciò che la vela
A questo livello si riconosce un operatore logico ben preciso nella teoria di Freud: il padre reale. Questo operatore mette al centro dell’enunciazione di Freud un termine dell’impossibile.
L’assassinio del padre in relazione a questa questione (che è il punto da dove parte Freud), risuonerebbe allora non tanto come accesso al godimento, quanto piuttosto come un artificio per velare questo problema.
L’assassinio del padre farebbe infatti pensare di poter disporre del proprio godimento, laddove- come detto- si tratta di un impossibile.
L’assassinio del padre ricade allora in una logica che vede al centro della questione il suo agente: il padre reale
L’agente della castrazione è il padre reale e lo è precisamente nel senso che si presume abbia il fallo nel senso immaginario. Ma esso è agente non nel senso di operare la castrazione in termini fattuali, ma nel senso di fare il lavoro di agenzia-padrone. Il padre reale non è come si potrebbe credere infatti il padre in carne e ossa, così come anche Lacan aveva detto precedentemente. Esso è tutt’altro, è l’agente della castrazione a partire dalla sua supposta onnipotenza. È proprio questa supposta onnipotenza (supposta dal soggetto si intende) a determinare in termini logici la sua conseguenza: la castrazione del soggetto. Se le cose stanno in questo modo è vero che non si tratta per questo operatore di detenere tutte le donne e per questo il godimento. Non è dunque con il suo assassinio che si può pervenire al godimento.
Si comprende da ciò che con il padre reale abbiamo a che fare essenzialmente con un operatore logico. La questione del godimento è dunque aggirata per il fatto che presupponendo il soggetto un significante padrone, di fatto così vela la castrazione. Porre un’idealità di una figura-padrona, ci permette di sostenere l’idea che il suo posto potrà un giorno essere occupato da noi, che al momento ci sentiamo ad essa sottoposti in quanto castrati. Ma siamo castrati strutturalmente, non da essa.
In rapporto al godimento si tratta del fatto che la castrazione è posta a principio del significante padrone. Ossia che il significante padrone la vela. Per questo non è onnipotente e prima o poi ognuno di noi lo constata, a meno che non sia troppo innamorato della verità.
Il padre reale di cui si parla qui in termini di impossibile, è il padre che è reale in quanto costruzione di linguaggio. Esso non è altro che effetto di linguaggio e non ha reale che questo.
A ciò perviene Lacan a partire dal mito di Edipo nel seminario Il rovescio della psicanalisi, ossia che il significante padrone, il Padre, lungi dall’essere una realizzazione, è in verità un fantasma necessario a velare la castrazione del soggetto. Ciò verrebbe in soccorso al soggetto, in relazione al fatto che la verità è inconoscibile. Il padre dunque non sarebbe il problema, ma il tentativo di soluzione in quanto lo velerebbe.
Discorso del padrone è il rovescio del discorso dell’analista
È evidente che la figura dello psicanalista si presta bene a occupare questa posizione padrona. E allora perché non potrebbe essere lo psicanalista questo padre reale? Non sarebbe desiderabile che lo fosse? Ciò del resto corrisponde con la fine dell’analisi per alcune scuole.
Non lo potrebbe essere semplicemente perché colluderebbe col sogno di chi ha bisogno di istituirlo con quelle fattezze, ossia l’isterico. È l’analizzante nella posizione dell’isterico, che lo istituisce come tale per non dover fare i conti con la propria castrazione. Quello che l’isterico vuole è infatti un padrone. “vuole un padrone che sappia molte cose, ma non tante da non credere che è lui (il soggetto) il prezzo supremo di tutto il suo sapere. In altre parole vuole un padrone su cui regnare. Lui (l’isterico) regna e lui (l’analista) non governa”.
Da questo appare evidente una prima importante considerazione, ossia che intendere lo psicanalista come luogo di una verità è piuttosto una resistenza in analisi più che la sua conclusione. Identificarsi all’analista come supposto sapere è infatti un altro modo per velare la castrazione.
Ogniqualvolta si chiede a qualcuno che cosa voglia, l’unica risposta possibile è un significante padrone. Un significante padrone è ciò che si ama non ciò che si uccide. Un padre è fatto per essere amato, non per essere ucciso. Esso è ciò che vela la verità come impossibilità, è ciò che vela la castrazione. Freud a questo livello si sbaglia, non si assassina il padre per accedere al godimento, lo si ama perché lo rappresenta (il godimento) in quanto già morto.
Il discorso del padrone è in questo senso il rovescio della psicanalisi, in quanto presupponendo un agente come idealità in rapporto al godimento, di fatto vela la castrazione. Castrazione che è un superamento necessario alla conclusione di un’analisi.
Il suo rovescio è il discorso dell’analista. “Esso mettendo come manifesto il godimento come operatore del suo atto, separa il significante padrone, in quanto lo si vorrebbe attribuire al padre, dal sapere la verità. L’ostacolo che si determina, si stabilisce – per mezzo del godimento- tra il significante padrone e il campo di cui dispone il sapere in quanto si pone come verità. Ecco ciò che permette di articolare quello che la castrazione veramente è: il fatto che nessuno sa niente della verità.”
Lacan nel seminario Ancora, rivedrà un po’ la sua posizione rispetto alla verità e al sapere. Riguardo alla prima, sebbene sostanzialmente conservi lo statuto di impossibile, dirà che è qualcosa a cui si può pervenire. Vi si può pervenire proprio come accade ad Edipo nella tragedia di Sofocle, ma nei termini di un incontro tragico con la miseria del nostro essere, con quell’ oggetto di noi stessi che come gli occhi di Edipo è ciò che miseramente cade. Questa verità si può vedere, ma non ci dice altro che angoscia.
Ciò nella tragedia di Sofocle è qualcosa che, se vogliamo, è preso come un monito al fine di assicurarsi l’obbedienza delle leggi. Edipo e la sua stirpe sono proprio l’evidenza maledetta dell’essere fuori norma. Sono la sconfitta reiterata di chi è voluto uscire dai ranghi di una scrittura che come destino precede il soggetto. L’incontro con la verità – che bisogna evitare- ha un valore pedagogico: risponde alla necessità di consolidare le leggi della polis.
Edipo ha voluto vedere e questo suo ostinarsi a vedere, lo ha fatto accedere a ciò che non si poteva vedere.
Ma la verità – come sappiamo dal seminario XVII e dai successivi- è anche un mi-dire. Un dire che si colloca al di là del suo contenuto manifesto, che come le formazioni dell’inconscio e il mito, dice dicendo altro.
Il sapere non sarà dunque il sapere della verità, ma sarà il sapere inconscio. Una maniera cioè di scrivere come bordatura del reale e al contempo come creazione ripetitiva, precipua di quel soggetto. Uno scrivere non la verità, ma il non rapporto con quel reale inconoscibile che è il nucleo di noi stessi.
dott. Gaetano Romagnuolo