Note a margine del caso Lol V. Stein: ravissement, depersonalizzazione, pre-psicosi e personalità as if nella clinica lacaniana delle psicosi
Amalia Mele
La clinica psicoanalitica offre un contributo originale alla concettualizzazione della nozione di depersonalizzazione. Studiata a partire dai concetti di immagine del corpo (Schilder), di frontiera dell’io (Federn), di relazione d’oggetto (Bouvet), di patologie dell’identificazione e di narcisismo (Sami-Ali, Jacobson), con la teoria lacaniana questa nozione non è più legata a una patologia dell’io ma a un danneggiamento del soggetto. Solo con il perentorio «non esiste soggetto che dell’inconscio» si può comprendere che la depersonalizzazione indica precisamente un superamento delle coordinate della posizione soggettiva[1].
Con tale nozione di depersonalizzazione entrano in risonanza altri termini, ad esempio, rapimento (ravissement), che rimandano all’assentificazione, all’impersonalità, al desêtre, al vuoto, una koinè di definizioni e di concetti che nella teoria lacaniana fanno riferimento sia all’ambito psicopatologico sia a quello delle strutture discorsive della soggettività.
In questo saggio si guarderà alla depersonalizzazione nella sua accezione psicopatologica di sintomo spia nella fase prepsicotica e nella fase dello scatenamento della psicosi, ma si riferirà inoltre dell’approccio originale di Lacan a questa nozione, che viene così sdoganata dall’ambito ristretto della psicopatologia.
Per questo approccio non psicopatologico alla nozione di depersonalizzazione e del suo vortice con gli altri concetti esaminati (ravissement, personalità as if, pre-psicosi), esaminerò tre ambiti del pensiero lacaniano.
– La depersonalizzazione come momento nella cura psicoanalitica tema affrontato da Lacan nello scritto Nota sulla relazione di Daniel Lagache[2].
– La depersonalizzazione nei suoi rapporti con il pas-tout[3].
– La depersonalizzazione nel Rapimento di Lol V. Stein[4], racconto di Marguerite Duras a cui Lacan dedica, nel 1965, il saggio Omaggio a Marguerite Duras, del rapimento di Lol V. Stein[5].
1. La psicosi non scompensata
Partiamo con la grande questione delle psicosi non scompensata che incrocia il dibattito contemporaneo della clinica delle supplenze. Nella psicosi non scompensata il tentativo di costruzione per rimediare al buco lasciato dalla forclusione (da distinguere dunque da una supplenza), non solo non riesce a evitare lo scatenamento, il ritorno dal reale, ma talvolta vi ci conduce. Si tratta in effetti di due concetti, compensazione immaginaria e supplenza, che appartengono a momenti differenti del pensiero di Lacan. La nozione di compensazione immaginaria che appartiene al primo tempo dell’insegnamento di Lacan, fa riferimento alla concezione del primato del simbolico sull’immaginario degli anni ‘50. Bisogna attendere il nodo borromeo e l’equivalenza dei tre registri (simbolico, immaginario, reale) per parlare di supplenza. La compensazione immaginaria è al cuore, nel S III, dell’analisi lacaniana del periodo pre-psicotico del presidente Schreber, mentre la lettura joyciana di Lacan nel S XXIII, rimanda alla nozione di supplenza, e al tentativo dello scrittore irlandese di evitare, con la scrittura, la psicosi. Alcuni autori (ad esempio Miller) sottolineano, in questo mutamento, la transizione da una clinica del conflitto, dell’opposizione (alla ricerca di soluzioni), a una clinica dei nodi, delle connessioni e delle deconnessioni (alla ricerca di arrangiamenti).
La clinica lacaniana delle psicosi, quale che sia il momento di concettualizzazione, prende comunque le distanze dalla tesi kleniana dell’esistenza di un nodo psicotico in ogni essere umano. Sin dagli inizi della sua carriera di psichiatra, Lacan è di questo avviso, ricordando di aver affisso sul muro della sua sala di guardia la singolare frase: Non diventa folle chi vuole.
Nel corso del S III Le Psicosi[6] Lacan farà riferimento alla ricerca di Hélène Deutsch sulle identificazioni prima dello scatenamento psicotico e alla pre-psicosi di Moritz Katan.
Nel 1934 Hélène Deutsch[7]concettualizza la nozione di as if che le è suggerita da disturbi di marca affettiva e che qualifica come «pseudo» (inaugurando così l’uso del prefisso pseudo nella clinica) in ragione della mancanza di autenticità, e di «qualcosa d’inafferrabile e indefinibile» che osserva in questi pazienti e che descrive con metafore efficaci: «identificazione all’automa», «adesione illusoria», «gioco d’attore senza originalità» figure di «una situazione edipica che resta una forma vuota». Dato di grande rilievo è che Hélène Deutsch ha isolato quasi esclusivamente questa entità clinica in pazienti donne. Stupita in seguito dell’estensione in termini di nomenclatura psy della sua nozione di as if, Hélène Deutsch ribadisce che tale concetto rimanda alla struttura («a certain personality structure») dando, in un scritto successivo (L’impostore), un sorprendente significato di impostura (occupare un “falso posto”) a tale singolare tratto clinico. «È interessante osservare la patologia in ciò che è considerato abitualmente come “normale”. Il mondo è pieno di personalità “come se”, e più ancora d’impostori e simulatori. Da quando m’interesso all’impostore, mi segue dappertutto. Lo ritrovo tra i miei amici e le mie relazioni ma anche in me stessa»[8].
L’as if come sintomo d’impostura rivela di una malattia dell’immaginario, il cui velo va squarciato, come Lacan stesso ricorda nella Questione preliminare[9] a proposito del presidente Schreber, il quale non manda al diavolo «la balena dell’impostura» paterna, pagandone così il prezzo con la sua psicosi.
La normalità indice di adattamento alla realtà per la Egopsychology rivela dell’«epidemia dell’immaginario» (Žižek[10]) che la personalità as if preconizza, declinandosi come il cul de sac dove si annidano l’iperdattamento e le reazioni intellettuali e affettive perfettamente «coerenti e appropriate», di cui Hélène Deutsch smaschera il carattere «impersonale».
Vi è uno stretto rapporto tra as if e depersonalizzazione, ma Hélène Deutsch differenzia quest’ultima per la presenza di una sofferenza soggettiva e di una coscienza morbosa dei disturbi, che è ben lontana dunque da quell’anestesia e da quella cecità che la personalità as if manifesta nei confronti dell’inautenticità della propria vita. L’as if è una depersonalizzazione non percepita come disturbo.
L’inibizione dello sviluppo della vita affettiva della personalità as if è spia per Hélène Deutsch di una costruzione edipica da lei definita come «fantomatica» o «trascurata ». Maleval nell’ambito del dibattito sulla psicosi ordinaria considera nella personalità as if la carenza di ogni orientamento ideale comandato da un significante maître: «il funzionamento as if tende a rimediare all’inconsistenza della significazione, alla carenza del fantasma fondamentale e, nel campo delle identificazioni, al difetto del tratto unario. Piuttosto che restringerlo al tipo di H. Deutsch, sembra euristico mostrare l’estensione dei meccanismi “come se” in quanto modi di stabilizzazione frequentemente utilizzati dallo psicotico»[11].
Nella compensazione immaginaria della pre-psicosi non c’è identificazione come nell’isteria al tratto unario, ma identificazione mimetica, diffusa, tutta inclusiva, non dialettica, non terziaria, in serie, che tende a riprodurre interamente l’oggetto dell’identificazione. Il funzionamento as if testimonia comunque di un processo psichico elaborato. Nel prendere appoggio sugl’ideali del sembiante, del simile, il soggetto mantiene un’apertura alla dimensione dell’Altro, avendo accesso così in qualche modo a una sorta di controfigura dell’Ideale dell’Io.
Nel S III Le Psicosi nel capitolo Dei significanti primordiali e della mancanza di uno Lacan affronta il problema della compensazione della psicosi. Possiamo esaminare i seguenti aspetti.
In primo luogo la pre-psicosi e la “risorsa della struttura”.
Katan definisce come pre-psicosi la situazione del soggetto che vive in una condizione di pre-scatenamento senza sintomi. Attraverso il caso di un adolescente di 17 anni mostra gli «esercizi chiamati di autoconquista»[12] che lo spingono a identificarsi a un compagno, incollandosi al suo desiderio, al suo orientamento sessuale, ai suoi comportamenti virili.
Lacan farà esplicitamente riferimento nel S III alla pre-psicosi di Moritz Katan: «Un minimo di sensibilità datoci dal nostro mestiere ci fa toccare con mano qualcosa che si ritrova sempre in quella che viene chiamata pre-psicosi, ovvero la sensazione che il soggetto sia arrivato al bordo del buco»[13]. È la celebre metafora dello sgabello, che sarà incaricata a esprimere l’appello del soggetto alla “risorsa della struttura” nella fase prepsicotica: «Non tutti gli sgabelli hanno quattro piedi. Ce ne sono che stanno in piedi con tre. Ma in questo caso non deve venirne meno nemmeno uno, altrimenti le cose si mettono male. Ebbene, sappiate che i punti di appoggio significanti che sostengono il piccolo mondo dei piccoli uomini solitari della folla moderna sono in numero assai ridotto. Può accadere che in partenza non ci siano abbastanza piedi per lo sgabello, ma che esso stia in piedi lo stesso fino a un certo punto, quando il soggetto, giunto a un certo incrocio della sua storia biografica, viene messo a confronto con quel difetto che esiste da sempre. Per designarlo ci siamo finora accontentati del termine Verwerfung»[14].
Secondariamente, possiamo analizzare cosa s’intende, nella pre-psicosi, per «compensazione immaginaria».
Lacan metaforizza con l’immagine delle stampelle quel meccanismo che vicaria il deficit simbolico del soggetto impedendogli di cadere nel buco: «In questo modo la situazione può sostenersi a lungo e ci sono degli psicotici che vivono compensati, presentano in apparenza comportamenti ordinari considerati come normalmente virili, ma all’improvviso, misteriosamente, sa Dio perché, si scompensano. Cos’è che rende improvvisamente insufficienti le stampelle immaginarie che permettevano al soggetto di compensare l’assenza del significante?[15]»
E infine è messo in tensione il rapporto tra la compensazione immaginaria e la “serie”.
La serie è quella isolata da Hélène Deutsch nella personalità as if e che Lacan definisce come: «una serie di identificazioni puramente conformiste con personaggi che gli daranno un’idea di quello che bisogna fare per essere un uomo[16]» e che rappresentano la «compensazione immaginaria dell’Edipo assente». Si tratta dunque di soggetti che non sono mai entrati nel gioco dei significanti se non per una sorta d’imitazione esteriore.
2. Nota sulla relazione di Daniel Lagache
Nelle Nota sulla relazione di Daniel Lagache, Lacan parla in questo saggio della depersonalizzazione a proposito di quel momento dell’analisi dove in gioco è la separazione dell’oggetto a dall’immagine del corpo i(a) e la sua restituzione al campo dell’Altro. In questo testo, a proposito della depersonalizzazione che interviene quando l’analizzante perde la certezza di ciò che credeva di essere, nel prendere la misura di ciò che il suo essere deve al discorso dell’Altro, si comprende che Lacan intende questa depersonalizzazione, per l’appunto, come una disidentificazione, come una perdita di essere: «Gli effetti di depersonalizzazione constatati nell’analisi sotto aspetti variamente distinti, vanno considerati meno come segni di limite che come segni di superamento»[17]. Il soggetto, dunque, non si reperirebbe più a partire da quel tratto dell’Ideale dell’Io, in quel punto cioè di identificazione dove si vede amabile perché visto dall’Altro, amato (e solo narcisisticamente amante in quanto amato), soggetto desiderabile ma mai desiderante.
Parlando di depersonalizzazione nella Nota sulla relazione di Daniel Lagache, Lacan si situa già allora in una direzione di marcia differente rispetto a Balint, che ha concepito la fine dell’analisi come identificazione all’io dell’analista. Parlando di depersonalizzazione nella Nota sulla relazione di Daniel Lagache, Lacan si situa già allora in una direzione di marcia differente rispetto a Balint, che ha concepito la fine dell’analisi come identificazione all’io dell’analista, un approdo della cura analitica che Lacan descrive come uno stato di elazione in cui il paziente scambierebbe il suo io con quello dell’analista.
3. Il pas-tout
Molti anni dopo Lacan incrocia un nuovo filone di ricerca: il pas tout.
L’esistenza di una posizione femminile è momento di avanzamento di Lacan rispetto alla teoria freudiana, e dona accesso a un’altra jouissance, detta jouissance Autre, jouissance supplementare, un fuori linguaggio che ha sovente a che fare con l’esperienza della mancanza nell’Altro. L’esperienza del pas-tout può pertanto produrre insicurezza, effetto di desệtre, depersonalizzazione soprattutto in momenti di passaggio della vita di una donna. Non tutta nella castrazione (pas-tout) spiega inoltre la difficoltà del desiderio per il soggetto femminile, poiché il desiderio è legato alla legge e dunque alla castrazione. Da cui il freudiano: Che cosa vuole una donna? La nozione di pas-tout consente però a Lacan di andare al di là di Freud abbandonando la nozione di masochismo (sintomo della donna pensata come mancanza fallica) in favore di quella di follia femminile. Una difficoltà ben analizzata da Marie-Charlotte Cadeau: «Una donna sembra sollecitata a mantenere un equilibrio molto delicato tra il pas e il tout, tra il toute e il toute-pas. Un equilibrio pas impossibile – insieme “passo impossibile”, ma anche “non impossibile”, vale a dire contingente – per effetto del rapporto diretto di una donna con l’infinito, quindi con il fuori senso e con il fuori sesso. Capiamo così perché la pas-toute possa costantemente oscillare tra un tout (tutto) e un pas-tout. Il tout, tutto, corrisponderebbe da una parte all’isteria e, dall’altra, al toute-pas, al tutta-no, vale a dire all’anoressia, ad alcune forme di misticismo e a certe forme di pseudo-psicosi. Tale squilibrio può prodursi nello stesso soggetto perché – è una mia proposta – la causa è in fondo la stessa: vale a dire, non il “rifiuto” chiaramente isterico, ma diciamo la “non accettazione” o la “non efficacia” del patto paterno, lo stesso che è alla base della discordia e della solidarietà descritta dalle formule della sessuazione. Il patto paterno indica l’efficacia del significante Nome-del-Padre. Capiamo subito perché Lacan dirà che si può fare a meno del Nome-del Padre a condizione di sapersene servire. Il Nome-del-Padre non è direttamente presente nelle formule della sessuazione, ma è necessario che sia efficiente»[18].
Negli anni ‘70 Lacan precisa dunque che questo godimento Altro presuppone l’iscrizione fallica, specificando bene lo scarto nelle tavole della sessuazione tra e grande phi Φ, l’intervallo tra 0 e 1 dove s’inscrive il godimento femminile. Non vi è ritorno al godimento infinito di cui Lacan parlava negli anni ’60, ma questo godimento Altro è supplementare e occorre differenziarlo dal godimento dell’Altro che rappresenta il godimento psicotico senza inscrizione fallica. Il godimento Altro, pur ponendosi al di là del godimento fallico e come un fuori-linguaggio (una sorta di joui-absence per Lacan), necessita del linguaggio e dell’inscrizione fallica.
«Non c’è donna che non sia esclusa dalla natura delle cose che è la natura delle parole […] Resta nondimeno vero che, se la donna è esclusa dalla natura delle cose, è proprio in quanto, essendo non tutta, essa ha, in rapporto al godimento designato dalla funzione fallica, un godimento supplementare. […] C’è un godimento a lei proprio, proprio a questa lei che non esiste e non significa niente. C’è un godimento a lei proprio di cui forse lei stessa non sa niente se non che lo prova – questo lo sa. Lo sa, naturalmente, quando capita. Non capita a tutte […] Questo godimento che si prova e di cui non si sa nulla non è forse quello che ci mette sulla via dell’ex-sistenza? E perché non interpretare un volto dell’Altro, il volto Dio, come quello che è sostenuto dal godimento femminile? Dal momento che tutto ciò si produce grazie all’essere della significanza, e questo essere non ha altro luogo se non il luogo dell’Altro da me designato con la A maiuscola, è patente la stramberia di quel che accade. E siccome è lì che si inscrive anche la funzione del padre in quanto è a essa che si rapporta la castrazione, è patente che non ne risultano due Dio, ma che non ne risulta nemmeno uno solo»[19].
Nelle tavole della sessuazione Lacan traduce la provocatoria formula La donna non esiste con la notazione . Non c’è Ladonna (non c’è identità, essenza, tratto comune alle donne), non c’è una posizione universale della Ladonna ma solo una posizione singolare che rimanda a una donna. La singolarità non traduce l’eccezione né la particolarità, ma l’indeterminazione e la contingenza. Nelle tavole della sessuazione L apre in due direzioni differenti. ha rapporto con il grande phi Φ (c’è una freccia che da va verso Φ il fallo simbolico, l’inscrizione fallica) e con .
(il significante che traduce il buco nell’Altro, la mancanza del significante che arresterebbe il rinvio infinito da un significante ad un altro, significante che non esiste dunque, significante dell’Altro dell’Altro).
Come osserva ancora Marie Charlotte Cadeau il matema è «diverso, forse ancor più complesso e paradossale di Φ, poiché è l’esperienza dell’assenza e del vuoto, ed è anche il luogo in cui “Dio non ha ancora fatto il suo exit”[20]. Ma si tratta di un’Altra faccia di Dio, non del nostro buon vecchio padre. È un’esperienza della vita fuori senso, fuori sesso, fuori anche dal lavoro dell’inconscio, che Lacan metaforizza spesso con questo riferimento evangelico: “i gigli né filano, né tessono”. Non è un caso che Lacan abbia cercato dalla parte della mistica l’esperienza in cui si ama in Dio l’assenza di Dio, ma senza ricusare né rifiutare il Nome-del-Padre come invece fanno l’anoressica o l’isterica»[21].
4. Il caso Lol
La nozione di rapimento (ravissement) non rimanda a una struttura clinica ma ci consente, in primo luogo, di tematizzare gli effetti della forclusione del NdP, della lesione del sistema simbolico nella psicosi. Secondariamente, rapimento è inoltre il termine con cui si definiva nel XIII secolo l’estasi mistica. Dunque è proprio la nozione di pas-tout a essere messa in tensione dalla nozione di rapimento.
Il primo rimando del termine rapimento è dunque allo scatenamento psicotico. Come osserva Bogochvol[22] il “caso” Lol può “finzionare” la questione dello scatenamento psicotico.
Lacan stesso nel suo Omaggio eleva il racconto di Marguerite Duras alla dignità di caso clinico: «Questo è precisamente ciò che riconosco nel rapimento di Lol V. Stein, dove Marguerite Duras dimostra di sapere, senza di me, quello che io insegno»[23].
Ad esempio i personaggi principali (Tatiana e Jacques Hold) s’interrogano sulla follia di Lol, riproducendo la questione clinica di che cosa è una preistoria della psicosi. Ecco come l’amica del cuore Tatiana approccia la follia di Lol con la nozione di marca fenomenologica jaspersiana di sviluppo:
«Tatiana Karl fa risalire molto più lontano, perfino prima della loro amicizia, le origini della malattia. Erano già in Lol V. Stein, covate ma trattenute […] già mancava a Lol qualche cosa – dice lei: per esserci. Dava l’impressione di sopportare in una noia tranquilla il personaggio che si sentiva in dovere di sembrare, ma che le sfuggiva di mente in ogni occasione. Gloria di dolcezza ma anche d’indifferenza –facile scoprirlo – mai aveva dato segno di soffrire o di essere addolorata; mai che le avessero visto una lacrima di fanciulla»[24]. La marca del vuoto, dell’esilio, della depersonalizzazione, della «vacuità» (Lacan) è già qui.
L’altro personaggio, Jacques Hold, costituendosi come voce narrante incarna, in opposizione a Tatiana, un approccio antifenomenologico, riproducendo l’esteriorità del discorso degli altri e dell’Altro: «Io non credo più a niente di quello che dice Tatiana, non sono convinto di nulla […] Partendo di qui, narrerò la mia storia di Lol V. Stein»[25]. Jacques Hold parlerà a partire dal suo silenzio, occupando il suo posto nell’enunciazione. L’opzione narratologica che sceglie il romanzo, in cui Lol è “parlata” più che investigata nel suo vissuto e nella sua interiorità, si fa omologa alla questione di Lol: la sua opacità soggettiva, la sua difficoltà a costituirsi come Je, come soggetto dell’enunciazione. La soggettività non può che apparire nell’esteriorità.
Lol vive come se, come sembiante d’essere sino alla famosa scena del ballo, dove vediamo sorgere questa dimensione del rapimento, del ravissement.
Ecco come Lacan la descrive: «La scena di cui il romanzo intero non è che la rimemorazione, è in realtà il rapimento di due in una danza che li salda, sotto gli occhi di Lol, terza, a subirvi con tutto il ballo il ratto del fidanzato da parte di colei che non ha avuto che da apparire all’improvviso»[26].
Una scena che Marguerite Duras descrive in un tempo di sospensione dove tutti guardano. Non si tratta di gelosia per Lol. Quello che prova Lol non è in nessun momento la gelosia, ma qualcosa di strano. Si sente diventare impersonale, perde qualcosa della sua soggettività, ma non nel senso della privazione o della frustrazione. Si assenta da se stessa, senza angoscia, senza sofferenza e così per sempre.
Margherite Duras descrive così il periodo che segue al rapimento:
«Nella prostrazione di Lol si notarono in quel periodo, dicono, alcuni segni di sofferenza. Ma che significato ha una sofferenza senza soggetto? Diceva sempre le stesse cose: l’ora estiva ingannava, non era tardi. Pronunciava con collera il proprio nome: Lol V. Stein – così indicava se stessa»[27].
In un processo di assentificazione Lol non compie il lavoro del lutto, semplicemente sostituisce l’oggetto perduto con il niente: «A poco a poco smise perfino di parlare […] Parlò solo per dire che le era impossibile esprimere quanto fosse noioso e lungo, lungo – essere Lol V. Stein. Le chiedevano di fare uno sforzo. Non capiva perché, diceva. La difficoltà che provava davanti alla ricerca di una sola parola sembrava insormontabile. Parve che non aspettasse più niente»[28].
Poi migliora, reinveste il corpo («riprese a chiedere di mangiare, che le aprissero le finestre, il sonno»[29]), ma poi di nuovo si assenta in uno strano rapporto con il sapere («Assentiva a tutto quello che veniva detto, raccontato, affermato in sua presenza. Ai suoi occhi, ogni discorso era ugualmente importante. Ascoltava con passione. Di loro due, non chiese mai notizie. Mai una domanda»[30]). Ricomincia a uscire da sola, senza avvertire e senza meta; segue un uomo come in un’eco e si ritrova sposata: «Così Lol prese marito senza averlo voluto, nel momento che le conveniva, senza passare per la barbarie di una scelta, senza dover rasentare quello che agli occhi di alcuni sarebbe apparso un delitto, sostituire con un essere unico il fuggitivo di T. Beach, e soprattutto senza avere tradito l’abbandono esemplare in cui questi l’aveva lasciata»[31].
Ha tre figli. Muore la madre («La morte di sua madre […] non le fece versare una lacrima»[32]). Non prova niente, resta rapita, indifferente. Sembra comunque stabilizzata, ma solo nel mimetismo, nella macchinazione, nell’imitazione dei modelli: «Nella casa di Lol a U. Bridge regnava un ordine rigoroso. Un ordine quasi come lei lo desiderava, nello spazio e nel tempo. Gli orari erano rispettati e così pure il posto di ogni cosa. Impossibile, convenivano tutti intorno a lei, accostarsi di più alla perfezione […] E anche quel gusto gelido, su ordinazione. La disposizione dei mobili nelle camere, nel salotto, era la copia fedele delle vetrine dei negozi, quella del giardino coltivato da Lol la replica di altri giardini di U. Bridge. Lol imitava, ma chi? Gli altri, tutti gli altri, il più gran numero possibile di altri»[33].
Un giorno una coppia, l’amica Tatiana e il suo amante (e futuro amante di Lol), il narratore Jacques Hold, passano davanti alla sua casa: «Morta, forse[34]» è la frase, pronunciata di sfuggita dalla donna e riferita a Lol.
Un fantasma, come tentativo di guarigione, si costituisce al passaggio della coppia: «Lol uscì per le vie e imparò a camminare a caso»[35]. L’automatismo delle passeggiate innesca la compulsione a ripetere della memoria di una scena che non potrà mai chiudersi: «Pensieri, un formicolio di pensieri […] Come se il movimento macchinale del corpo li facesse sorgere tutti insieme, in un movimento disordinato, confuso, generoso […] Il ballo riprende un po’ vita, freme, si aggrappa a Lol. Essa lo riscalda, lo protegge, lo nutre; il ballo cresce, esce dalle pieghe che lo avviluppano, si stira, un giorno eccolo pronto. Lol vi entra. Lol vi entra ogni giorno […] E in questo recinto, spalancato solo al suo sguardo, ricomincia il passato, lo riordina, rassetta quella che è la sua vera casa […] Tra i molteplici aspetti del ballo di T. Beach, quello che incatena Lol è la fine. Il momento preciso della fine, quando l’aurora, con brutalità inaudita, arriva e la separa dalla coppia di Michael Richardson e Anne-Marie Stretter, per sempre, sempre. Ogni giorno Lol fa un passo avanti nella ricostruzione di questo istante […] Quello che sta ricostruendo è la fine del mondo. Vede se stessa – ed è questo il suo vero pensiero – nel medesimo posto in quella fine, sempre, al centro di un triangolo: l’aurora e quei due ne sono i vertici eterni»[36].
Poi alla ripetizione fa seguito qualcosa di nuovo. Attraverso il fantasma diventa questo «essere a tre» di cui parla Lacan. Prende una posizione, occupa un posto, contempla la coppia (l’amica Tatiana e il suo amante Jacques Hold), li spia nei loro scambi d’amore. Una ripetizione questa volta attiva della stessa scena, che offre stabilizzazione, consentendo il viraggio da una situazione di mimetismo, di transitivismo a due, alla costruzione di una relazione a tre, attivamente perseguita. Come osserva Lacan: «Non è l’avvenimento, ma un nodo che qui si riforma. Ed è ciò che questo nodo stringe in realtà a rapire, ma una volta ancora: chi?»[37].
I personaggi del trio non resteranno ora immobili. Cambiano di posto. A cambiare di posto drammaticamente è Lol nell’incontro sessuale con Jacques Hold: «Sono costretto a svestirla. Non lo farà da sé. Eccola nuda. Chi c’è nel letto? Chi crede lei che ci sia? […] Ecco la crisi. L’ha scatenata la nostra situazione di questo momento: essere in questa camera, soli, lei ed io […] Poi gridando, ha insultato, supplicato, implorato a un tempo di essere ripresa e lasciata in pace, cercando di fuggire come una bestia inseguita, dalla camera, dal letto, tornandoci per farsi catturare, esperta, e non c’è stata più differenza tra lei e Tatiana Karl»[38].
Solo dopo questo purgatorio Lol torna normale. È il narratore, Jacques Hold, a testimoniare di questa “guarigione”: «Le chiedo di parlarmi di Michael Richardson, me ne parla»[39].
Cosa cerca Lol? Il suo è uno sguardo perverso? Hélène Deutsch segnala la frequenza di pratiche perverse nelle personalità as if, ma osserva che si tratta comunque di perversioni transitorie che vengono abbandonate quando «qualche personaggio convenzionale» viene a proporre una nuova identificazione. Si tratta dunque di pratiche sessuali erratiche, più subite che ricercate, legate alla causalità degli incontri, mentre al contrario il vero perverso ha un rapporto di certezza con l’oggetto del suo godimento.
Al contrario Lol diventa folle (è di follia dunque che si tratta non di perversione) per rispondere alle questioni fondamentali dell’essere: Qual è la vita, qual è il sesso? La sola risposta possibile è la rottura come osserva Lacan: «Rapitrice, proprio, è anche l’immagine che si va imponendo a noi in questa figura di ferita, di esiliata dalle cose, che non si osa toccare, ma che vi fa sua preda»[40].
Margherite Duras mostra con il suo Rapimento di avere una vera passione per la narrazione della privazione e della follia femminile.
Eccoci dunque alla seconda questione che la lettura “clinica” di questo racconto ci propone: il rapporto tra follia femminile e il pas-tout.
Lol riesce a rendere la relazione che la donna pas-toute intrattiene con il significante della mancanza nell’Altro, in un’oscillazione costante tra pas-toute e toute pas phallique.
Vi sono momenti di pas-tout in Lol, momenti estatici in cui avvicina il significante della mancanza nell’altro S(A). Sono le fascinazioni dello sguardo (i suoi abbandoni nel campo di segale di fronte all’albergo dei Boschi dove si incontra la coppia Tatiana-Jacques Hold) e le declinazioni del movimento e della deambulazione (le famose passeggiate di Lol).
Ma nell’evento (il ballo) l’incontro con il significante che manca si dà come una fatalità inevitabile. Lol scivola nel toute pas phallique della follia. È Lacan a spiegarlo nell’Omaggio in cosa consista l’avvenimento della follia di Lol: «È da cogliersi alla prima scena, in cui Lol è letteralmente spogliata dal suo amante, ed è da seguire sul tema del vestito, che regge qui il fantasma a cui Lol si lega nel momento successivo, di un al di là di cui non ha saputo trovare la parola, quella parola che, rinchiudendo le porte su loro tre, l’avrebbe congiunta a loro al momento in cui il suo amante avrebbe tolto il vestito, il vestito nero della donna e svelato la sua nudità. Questo va ancora più in là? sì, all’indicibile di questa nudità che s’insinua a sostituire il suo proprio corpo. Qui, tutto si ferma. Non basta forse a farci riconoscere quel che le è successo, Lol, e che rivelava cosa ne è dell’amore; e cioè di quest’immagine, immagine di sé di cui l’altro la riveste e che l’ammanta, e che la lascia quando ne è spogliata: cosa essere sotto? […] Quello che le rimane da allora è quel che si diceva di lei quando era piccola: che lei non c’era mai veramente. Ma che cos’è dunque questa vacuità? È proprio allora che prende un senso: lei fu, sì, per una notte fino all’aurora ove qualcosa in quel punto ha ceduto: il centro degli sguardi»[41].
Ancora molte questioni della clinica della psicosi sono qui messe in tensione. La questione del corpo nella psicosi innanzitutto[42].
Sappiamo che la possibilità di ricoprire il reale del corpo con l’immaginario dipende dal significante fallico e dalla metafora paterna. Da cui deriva la possibilità di afferrare il corpo come immagine, che si costruisce come immagine del sembiante, come immagine dell’altro: i(a). Nella psicosi, per il fallimento della metafora paterna, il soggetto avrà l’impressione di essere visto da tutti i lati. Nel Seminario X L’Angoscia Lacan esemplificherà questo tratto pregnante della clinica della psicosi, riportando il disegno (raccolto da Jean Bobon) di una paziente schizofrenica che era solita dire: “io sono sempre vista”( didascalia della tavola del disegno riportata da Lacan nel Seminario)[43]. Il supporto immaginario del corpo, i(a), che fa dimenticare che il mondo ci guarda, non tiene più («letteralmente spogliata dal suo amante»). Perdere l’amore è per Lol perdere l’immagine del corpo («cosa ne è dell’amore; e cioè di quest’immagine, immagine di sé di cui l’altro la riveste e che l’ammanta»). L’impossibilità a soggettivare la perdita («non ha saputo trovare la parola») è vicariata dalla costituzione del fantasma-vestito, da un’armatura fittizia di corpi («ed è da seguire sul tema del vestito, che regge qui il fantasma a cui Lol si lega nel momento successivo […] sì, all’indicibile di questa nudità che s’insinua a sostituire il suo proprio corpo»). Così Lol ricostruisce un trio isterico. Servendosi dell’immagine del corpo di un’altra donna, completa la faglia dell’immagine del corpo, la i(a) che nel soggetto funge da centro degli sguardi. Quel centro degli sguardi crollato con il ballo come Lacan ricorda: «è proprio allora che prende un senso: lei fu, sì, per una notte fino all’aurora ove qualcosa in quel punto ha ceduto: il centro degli sguardi».
[1] Cfr. Chemama R., Vandermesch B., Dizionario di psicoanalisi, edizione italiana a cura di Carlo Albarello e del laboratorio freudiano per la formazione degli psicoterapeuti, Gremese, Roma 2004.
[2] Jacques Lacan, Remarque sur le rapport de Daniel Lagache: «Psychanalyse et structure de la personnalité» in Écrits (1966), Éd. Seuil, Paris, 1999 (trad. it. di G. Contri: Nota sulla relazione di Daniel Lagache: Psicoanalisi e struttura della personalità in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, pp. 643-681).
[3] Jacques Lacan, Le seminaire Livre XX. Encore (1972-1973), Éd. Seuil, Paris, 1975 (trad. it. di A. Di Ciaccia e L. Longato: Il Seminario. Libro XX Ancora. 1972-1973, Einaudi, Torino, 2011).
[4] Marguerite Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, Feltrinelli, Milano, 1989.
[5] Jacques Lacan, Hommage fait à Marguerite Duras, du ravissement de Lol V. Stein (1965) in Autres écrits, Éd. Seuil, Paris, 2001, pp. 191-197 (trad.it. di R. Cavasola e A. Di Ciaccia: Omaggio a Marguerite Duras, in La psicoanalisi. Rivista del campo freudiano, 8 (1990), pp. 9-16.
[6] Jacques Lacan, Le seminaire Livre III. Les Psychoses (1955-1956), Éd. Seuil, Paris, 1981 (trad. it. di A. Di Ciaccia e L. Longato: Il Seminario. Libro III Le psicosi. 1955-1956, Einaudi, Torino, 2010).
[7] Hélène Deutsch, Aspects cliniques et théoriques des personnalités «comme si» (1965) in Les «comme si» et autres textes (1933-1970), Éd. Seuil, Paris, 2007, pp.293-301.
[8] Hélène Deutsch, L’imposteur: contribution à la psychologie du moi d’un type de psychopathe (1955) in Les «comme si» et autres textes (1933-1970), Éd. Seuil, Paris, 2007, p. 237.
[9] Jacques Lacan, D’une question préliminaire à tout traitement possibile de la psychose, in Écrits (1966), Éd. Seuil, Paris, 1999 (trad. it. di G. Contri: Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, pp. 527-579).
[10] Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004.
[11] Jean-Claude Maleval, Elements pour une apprehension clinique de la psychose ordinaire, www. scribd. com
[12] Jacques Lacan, Il Seminario. Libro III, cit., pag. 221.
[13] Jacques Lacan, Ivi, pp.231-232.
[14] Jacques Lacan, Ivi, pag. 232.
[15] Ivi, pp.234-235.
[16] Ivi, pag. 234
[17] Jacques Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache: Psicoanalisi e struttura della personalità, cit., pag. 676.
[18] Marie-Charlotte Cadeau, La clinica del pas-toute, in La clinica del pas-toute (a cura di C. Fanelli), Edizione italiana a cura del Laboratorio Freudiano, pp. 15-16.
[19]Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XX, cit., pp. 69-70-72.
[20] Ivi, pag. 78.
[21] Marie-Charlotte Cadeau, La clinica del pas-toute, cit., pag.19-20.
[22] Cfr. Ariel Bogochvol, Le cas Lol, www.lacanian.net.
[23] Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, cit., pag. 11.
[24] Marguerite Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, cit. pag. 8.
[25] Ivi, pag.9.
[26] Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, cit., pag. 10.
[27] Marguerite Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, cit. pp.17-18.
[28] Ivi, pp.17-18.
[29] Ivi, pag.18.
[30] Ivi, pag.18.
[31] Ivi, pag.23.
[32] Ivi, pag.25.
[33] Ivi, pag. 26.
[34] Ivi, pag. 30.
[35] Ivi, pag. 30.
[36] Ivi, pp.35-36.
[37] Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, cit., pag. 10.
[38] Marguerite Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, cit. pp.155-156.
[39] Ivi, pag. 157.
[40] Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, cit., pag. 9.
[41] Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, cit., pp.11-12.
[42] Cfr. Marcela Errecondo, Clínica del arrebato, www. eolrosario.org.
[43] J. Lacan, Le seminaire Livre X. L’angoisse (1962-1963), Éd. Seuil, Paris, 2004 (trad. it. di A. Di Ciaccia e A. Succetti): Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963) Einaudi, Torino, 2007, p.153.